IL RICORDO DI GIUSEPPE RAGO AI FUNERALI DEL DOTT. FELICE CRUDELE.


Quando qualche anno fa se ne andava un amico fraterno di Felice Crudele, sto parlando di zio Gino Maiorino, più che un cognato quasi un fratello, a dividersi la vita insieme, gli chiesi se avesse voluto dire qualche parola che lo commemorasse, così come sto facendo io per lui in questo momento. E lui che aveva punteggiato con i suoi discorsi, le sue strofe in rima i momenti belli e conviviali della nostra vita, lui così aduso alla parola, così estroverso, abituato al dibattito pubblico, politico e civile, lui a cui non sarebbe mai mancata una parola appropriata per un momento lieto, in quel momento triste disse: no, non sono adatto, non ne sono capace. Zio Felice era fatto così; così poco incline a sottolineare il lato dolente delle cose, incapace a dare parole alla tristezza, quasi a disagio nel dolore, come dentro a un elemento che non gli si confaceva, non gli apparteneva.
Forse per via di un’infanzia e una giovinezza difficile, provata dalla guerra, da una situazione familiare complicata, considerava, lo dico con le sue parole, “la nostra grande e bella famiglia” la sua più grande conquista; anche la sua straordinaria attitudine alla mediazione, alla composizione dei conflitti, in fondo rispondeva  a questa stessa esigenza di una sorta di “convivialità esistenziale”.
Così ha inteso anche la comunità cittadina come “grande e bella” famiglia allargata. Questa esigenza di mediazione, della quale tutti erano pronti a riconoscere la virtù, anche nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche e della sua professione, era tuttavia qualcosa di molto distante dall’attitudine al compromesso, men che meno sotto il profilo morale. Zio Felice anzi mi raccontava di aver iniziato la propria esperienza politica sotto l’impulso istintivo di uno sdegno morale: sappiamo come andò, contribuì enormemente alla moralizzazione della politica e del suo partito, diventò un sindaco amatissimo, per quasi un intero quinquennio, esperienza rarissima nella precedente legislazione municipale. Non sono in grado di ricordare le sue virtù civiche, la sua mitezza come virtù civile, la sua esperienza di amministratore pubblico, come sindaco, in anni centrali che ci hanno regalato, un sistema di infrastrutture degno di una città civile, soprattutto l’attuazione di un piano regolatore che finalmente ponesse un argine ad anni di indiscriminato sacco edilizio, ma vorrei ricordare, accanto a questo anche anni e anni di consiliatura, l’esperienza lungimirante e tenace nell’altra grande famiglia, quella del credito cooperativo, infine, da giovane e negli ultimi anni, quella di sostenitore dello sport per i giovani, di cultore e animatore della memoria e della storia locale nelle associazioni. 
E oggi questa enorme partecipazione di affetto che gli viene tributata mi sembra quasi come il saluto commosso di una comunità che vuol prendere congedo da se stessa, da un certo modo di essere nel passato, un modo buono e semplice, fatto di competenza e umanità, che mi sembra trovasse in zio Felice la sua più compiuta incarnazione, mite e affabile. 
La serenità di chi sa di aver compiuto fino in fondo il proprio dovere di padre, anche putativo, e di cittadino con onestà e modestia, senza alcun interesse di lucro personale, di prestigio, di vanità.
Durante queste feste abbiamo parlato a lungo, sembrava sempre avesse fretta del futuro, urgenza di vita, di domani, parlava del 2014, delle celebrazioni per il centenario della cassa rurale, mi raccontava le sue idee e mi diceva “dobbiamo fare presto, il 2014 è dietro l’angolo, bisogna sbrigarsi”. Un uomo così affamato di vita e di futuro, non avremmo sopportato di vederlo malato, con il corpo che lentamente tradisce e si congeda. E così non è stato. 
Nonostante i tanti anni che zio Felice ha avuto la fortuna di vivere, che noi abbiamo avuto la fortuna di condividere con lui, non è stato davvero malato, concettualmente malato, neanche un solo giorno. Marguerite Yourcenar faceva dire ad Adriano, al momento del congedo, “Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più(...) Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti(...)”. E lui c’è entrato, ad occhi aperti e mente lucida, ritto sui suoi piedi, la testa ancora affamata di futuro, così come ci saremmo aspettati da lui.
Ha aspettato rispettosamente che finissero le feste, perché non avrebbe mai osato rovinare una festa, e se n’è andato. Stavolta non c’è lui a leggere le sue strofe “le sue stroppole” come amava definirle; è giusto che ci sia qualcun altro a farlo, anche se è davvero tanto tanto strano che lui stavolta sia dall’altra parte e non parli.
Sappiamo già che la compagna della sua vita, zia Dora, saprà custodire con il pudore che le riconosciamo, il ricordo privato di zio Felice. A tutti noi resta moltissimo, resta la sua onestà, la sua competenza di medico, la sua lungimiranza di amministratore e uomo pubblico, la vita di tanti bambini salvati con scienza e con passione, la sua fiducia di bambino nel futuro. Ma nonostante tutto questo e nonostante sappia che lui non avrebbe apprezzato parole tristi, caro zio Felice, permettici di dirti, con ammirazione e con rispetto, che ci mancherai davvero tanto. 

Nessun commento: