LA DOLOROSA PERDITA DELLA NOSTRA CARA ZIA NUCCIA. 27 GIUGNO 2016. Contributi di GERARDO GIORDANO, GIUSEPPE RAGO, GIORGIO OLMOTI.

GERARDO GIORDANO
UNO SPAZIO PER CONOSCERE NUCCIA

La recente perdita di Nuccia, ha lasciato molti di noi addolorati e senza parole. 
L'età inoltrata di Nuccia, non aveva impedito di costruire con Lei un rapporto che nel tempo si era rivelato molto particolare, annullava tutte le differenze e rendeva possibile tutte le opinioni. 
Vedova da tanti anni aveva scoperto il valore delle relazioni con gli altri. Si dovrebbe dire con i tanti, con tutti. 
Il suo piccolo salotto di ricevimento e di accoglienza, era diventato nel tempo il rifugio dove tutti portavano una parola, una espressione. E ne uscivano arricchiti dalle conversazioni schiette e senza fronzoli, immediate ed essenziali rese possibili non solo dalla lucidità, ma anche  dalla conoscenza delle tante persone che giornalmente la visitavano e la aiutavano a vivere questa parte finale della vita.  
Nuccia aveva accettato di vivere a modo suo, con i suoi toni particolari che le consentivano di potersi esprimere su tanti aspetti della vita. 
Mi ero reso conto della straordinarietà della persona - ormai diventato un personaggio che ci fa pensare, proprio per i giorni in cui è venuta a mancare - come con Lei scompaia definitivamente il Novecento e quel mondo fatto di tante conquiste che ci ha consentito di arrivare fino ad oggi in un clima di pace e solidità di sistema. Quello che ha avuto alla sua base la famiglia con il suo mondo di relazioni, dalla quale possano emergere i figli migliori da dare al Paese. 
Con la sua scomparsa sono finiti anche i nostri incontri domenicali, ricchi di commenti alle tante immagini antiche e moderne, che le mostravo grazie alle tecnologie informatiche, e alla sua soddisfazione di farmi apprezzare i sapori della sua cucina antica. Solo il tempo potrà farmi superare il forte dolore che mi accompagna.
Mi permetto di raccogliere in queste pagine del blog tutti i contributi che ho ricevuto per conoscere e mettere a fuoco i mille momenti belli e gioiosi, che rendono indimenticabile il valore dell'esperienza umana di Nuccia.





GIUSEPPE RAGO
IL RICORDO AL FUNERALE DI NUCCIA.

Sarebbe davvero difficile iniziare con un ricordo, una parola, una battuta che possa celebrare o descrivere Nuccia. Perché lei era un tale carico strepitoso di ironia, intelligenza, ricordi, di emozioni, vive, vivissime, brucianti e appassionate che davvero diventa difficile districarsi. 
GIUSEPPE RAGO

E così il viale e i glicini della villa dei Nonni, la frescura del portone e del giardino di Montella, le sirene della guerra d’Etiopia e gli stivali podestarili del nonno che, no, proprio non volevano saperne di calzare, le canzoni attorno al pianoforte, quel cappello militare appeso alla finestra scorto da lontano (voleva dire che Oreste era tornato dalla guerra), le delusioni d’amore, le speranze appassionate, la guida sportiva di zio Donato nelle curve di Acerno, la pizza del giovedì; tutto insieme, ce lo teniamo stretto stretto. Oh certo mancherà lo spirito pronto e sagace del tuo racconto, quel linguaggio duttile, ironico e brillante, condito di sapide incursioni in un dialetto antico e buono, signorile e semplice. Perduto. Le battute fulminanti, ma, soprattutto, la testa ficcata – fino all’ultimo giorno – nel futuro. Sì, perché Nuccia sapeva di futuro: a mano a mano che il corpo lentamente la tradiva e la confinava in casa la sua mente si spalancava; mentre intesseva il racconto del passato e limitava il suo orizzonte a quattro mura, ingigantiva le sue capacità di capire, di conoscere. Non smetteva di indignarsi per quello che non le piaceva, non abbandonava una curiosità quasi fanciullesca, entusiasta, modernissima e vivace; non smetteva di “pigliarsi collera” per una notizia alla tv, salvo poi stemperarla in una risata ironica e coinvolgente. La rubrica telefonica fittissima di contatti, la cornetta sempre a portata di mano a tessere le fila della sua grande famiglia dispersa un po’ ovunque, a connettere, trasmettere notizie, sollecitare contatti, tenere uniti figli e nipoti in una inesausta rete nella quale ci siamo sentiti, tutti, ancora un po’ bambini; e poi le signore del palazzo, la sua piccola corte di amiche: tante se ne sono andate, ma molte altre sono arrivate nel tempo. I lavori a tombolo, i merletti, le scarpine in ogni casa in cui nasceva un bimbo: ci restano, Nuccia, ricami e sentimenti sparsi; la porta di casa sempre aperta, il campanello che suona di continuo, quella capacità di far rete.  Hai raccolto le nostre confidenze, che ci veniva quasi naturale farti, i nostri rimpianti, le nostre gioie, i dubbi, le debolezze e angosce; per ogni cosa confidata avevi una parola di partecipazione intensa, magari una lacrima, di gioia o di rimpianto; sempre una com-passione assoluta delle storie di tutti.
A me poi, e sicuramente a molti altri, lasci una cosa importante, e cioè che ad ogni donna è dato modo di provare ad essere libera anche quando l’epoca e le circostanze non sono favorevoli. Tu la tua ricerca della libertà l’hai coltivata nell’intelligenza e l’hai coltivata nell’amore incondizionato, al di là delle barriere, del pudore, delle reticenze e dei vincoli di sangue. Sapevi bene che non occorre partorire per essere madre: perciò hai capito, anche l’ultimo giorno, che l’amore non ha regole e che, ovunque ci sia amore, c’è qualcosa di giusto e di buono. Oh certo, era un amore esigente il tuo: se non ci si faceva sentire per qualche giorno erano guai! Ma sappiamo che l’amore esige costanza, reciprocità e cura, per poter dire: ho portato a termine la mia battaglia, ho coltivato fino alla fine il mio giardino, col buon tempo e la tempesta.
Ciao Nuccia, davvero, come dice Marguerite Yourcenar, sei entrata “nella morte ad occhi aperti”; ora chiudi l’ultima pagina di un libro caro: noi rileggeremo ancora il romanzo della tua bellissima “famiglia Novecento”.


GIORGIO OLMOTI
IL NOSTRO RICORDO

La casa di Nuccia era un formidabile palcoscenico perpetuo, la ribalta dove avresti potuto sospettare che un Eduardo avrebbe potuto prendere appunti e ricavare qualcosa di più concreto di uno spunto. Le figure centrali erano Nuccia e Donato e, come pochissime altre volte nella vita m’è capitato di trovare, attorno a loro ruotava una moltitudine di personaggi. Comprimari ma solo per un numero di repliche stabilite, caratteristi in grado di piombare nel cuore del palco domestico strappando il sorriso e attivando la macchina scenica dell’ironia e del maltrattato, comparse, macchiette, maschere tragiche e comiche portate con rassegnazione. Trovare Nuccia da sola era quasi impossibile, soprattutto d’estate, e se per caso non era lì a mantenere saldo lo scettro di governo di quella sarabanda, allora era al telefono a sfruttare la tecnologia per dare nuovo vigore alla sua compagnia viaggiante fatta di nipoti, a mille e a mille sparsi per la terra. Questo era Nuccia, la potentissima regia di una famiglia che da sola quasi stentava a riconoscersi oltre certe date d’obbligo ma che invece porta un segno d’appartenenza indelebile che, a volte a dispetto della nostra voglia di dirlo, finiamo per riconoscerci.

Nuccia andavamo a trovarla con mia nonna Anna a Montella l’estate. Ai primi di giugno e sempre con trasporti rocamboleschi e affidandomi a persone e a capotreni raggiungevo Battipaglia per passare l’estate da nonna. Ricordo una famiglia di Torre del Greco, genitori di un collega di mio padre che, di passaggio a Udine, si offrirono di portarmi da nonna. Viaggiammo in una 128 per tutta la notte con questo signore che sudava e la moglie che lo asciugava e da subito presero a chiamarmi Sergio e io, timido da fottermi l’anima, non ebbi il coraggio di contraddirli e per i due giorni a seguire risposi con disinvoltura a chi mi chiamava con quel nome. Poi arrivammo al sesto piano di palazzo De Luna, grazie al cielo nessuno dei parenti s’è lasciato negli anni prendere dal vezzo imbarazzante di metterla minuscola quella “d”, e mia nonna aprì la porta. C’era anche Nuccia che mi aspettava. Avevo sette anni e tutte e due mi accolsero abbracciandomi e pronunciando il mio nome giusto. Quando la signora provò a dire a Nuccia, ve lo ricordate come poteva reagire la nostra amata zia quando pensava di trovarsi di fronte a un cretino supponente, che io mi chiamavo Sergio, la reazione fu tremenda. Nessuno poteva permettersi di spiegare a Nuccia come si chiamava uno dei suoi nipoti. A quel punto tutti mi guardarono sbigottiti ma Nuccia tagliò corto e mi portò in cucina perché c’erano ad attendermi tutti quei sapori che hanno condizionato per sempre il mio palato e fatto di me un tremendo rompicoglioni quando mangio cose che non sono fatte come le fanno a casa mia. 
In realtà la parte maggiore, la quasi totalità del mio tempo estivo lo passavo tra le bufale e i campi di pomodoro della campagna di zia Assunta ma a un certo punto dell’estate si doveva andare da Nuccia. Trovavamo degli autisti a noleggio, in realtà si trattava sempre di agghiaccianti personaggi, recuperati dalle parti del bivio di Santa Cecilia, che si offrivano, in cambio di ricompense ovviamente, di portarci con la loro auto a Montella, nel cuore della montagna d’Irpinia. Mi ricordo benissimo quella casa e il giardino e il portone. Ho aiutato Nuccia a svuotarla quando l’ha lasciata e mi chiese se volevo prendere un ricordo. Sulla mia scrivania da allora c’è uno sfigmomanometro recuperato all’ambulatorio di zio Donato, una cassetta di legno con una colonnina e tutto il necessario per misurare la pressione. Non ha mai funzionato. Per questo mi piace, si fa i fatti suoi. Ma dicevamo delle visite a Montella. Ci arrivavamo affrontando le curve su macchine rappezzate e autisti che sospetto non avessero uno straccio di patente. I motori fumavano, mia nonna ripeteva al pilota di procedere “cuonc cuonc” e finalmente eravamo alla meta. Per me quel viaggio aveva uno scopo principale: le amarene di Nuccia. Un inverno ero lì con la mia famiglia e nevicò. Nuccia amava ricordarmi, come a sottolineare che lei avrebbe continuato a volermi bene per un imperativo categorico che prescindeva dalle mie reali qualità umane, che alla vista della neve io avevo detto:  “chi ha versato tutto questo latte”. Questa mia affermazione e l’episodio del Sergio Giorgio hanno nel tempo contribuito a costruire un’immagine di me estremamente imbarazzante in famiglia. Sta di fatto che in quei giorni prendevamo la neve con i bicchieri e ci mettevamo sopra le amarene di Nuccia. Da allora per me quello resta un ricordo indelebile. Se venite a casa mia, a conferma di quel dubbio sulle mie ridotte capacità, troverete decine di barattoli di amarene che da allora accumulo compulsivamente. Peccato che la neve a Torino scende venata dal nero del cielo della città industriale.

A diciassette anni mi sono trasferito a vivere da mia nonna a Battipaglia. A luglio. Un giorno, da casa mia a Udine, hanno comunicato che avevo preso un treno diretto nella ridente città della mozzarella dove si affollano a decine i miei consanguinei. Lo capisco da solo che all’idea di vedermi arrivare in treno, avendo su di me l’opinione costruita sul tempo su una serie innumerevole di fraintendimenti come quelli citati sopra e culminando con la mia resa scolastica che pareva piuttosto dare ragione ai sospetti, l’intera tribù s’era messa in allarme. Coordinati da Nuccia si erano attivati tutta una serie di personaggi che avrebbero dovuto accogliermi cercando di farmi scendere alla stazione giusta e portandomi poi a casa di nonna, la stessa di tutte le mie estati, dove immagino pensavano di tenermi segregato per impedirmi di fare azzardi e gesti autolesionistici. “Arriva Giorgio, quello che si credeva che la neve era latte, quello che si fa chiamare Sergio, quello che va male a scuola, quello che vive a Udine”. Vivere a Udine era considerato sul serio uno svantaggio pazzesco e il fatto che anni prima ci fosse stato anche un tremendo terremoto non aiutava a farci percepire come provenienti dalla stessa nazione. A Salerno fu piazzato zio Antonio, l’uomo che per me incarnava seriamente la cultura e la conoscenza, che dalla banchina spiava i convogli cercando di capire chi fosse Giorgio. Poi a Battipaglia fu schierata una guarnigione disposta tra la stazione, via Italia, piazza Madonnina e il portone di casa. Tutti sgherri al soldo di  Nuccia, guidati dal signor Mariannini, mi pare si chiamasse così. Nessuno mi aveva mai visto ma, come ebbero a dire quando poi tutto si concluse, riuscii a passare tutti i check point perché attendevano un ragazzo fortemente menomato nel fisico e nella ragione e io e il mio zaino siamo passati inosservati. Arrivato a casa sono andato da Rosa, la portinaia, mi sono fatto dare le chiavi, ho posato lo zaino e mi sono fatto la doccia dopo aver attivato il motorino per pompare l’acqua. Visto che non si faceva vivo nessuno sono andato a casa di Nuccia, sospettando di trovarli tutti lì. E così è stato. Ormai avevano chiamato i cani molecolari e le truppe aviotrasportate. Mia nonna diceva, lo diceva sempre, “dite che il padre è ufficiale” e sul balcone si guardava all’orizzonte come dagli spalti di fortezza Bastiani. Quando sono arrivato sono diventato inconsapevolmente uno dei personaggi di quella scena e in quell’estate che non riuscirò più a dimenticare ho riguadagnato la serenità seduto su quel balcone mentre zio Donato controllava che i treni giù alla stazione marciassero in orario e mentre si avvicendavamo mille e mille personaggi governati da piglio formidabile di Nuccia. Quella stagione non me la dimenticherò più. Che ci crediate o no sono diventato pure bravo a scuola da allora e ho capito che la palestra dell’ironia sottile di Nuccia e della sua compagnia stava irrobustendo anche il mio modo di leggere il libro del mondo.

E poi mi sono fatto uomo e padre di famiglia. Da Nuccia andavo a Natale sempre. Passando diretto a Matera dove negli anni s’è allungata la mia vita e si sono irrobustite le mie passioni. Andavo a farle gli auguri per il compleanno. Questo inverno ci siamo fermati come ogni volta. Siamo saliti io e Daniele e Stefania è rimasta alla macchina carica di bagagli. Poi quando siamo scesi ci siamo dati il cambio ed è salita lei. Dopo due ore di attesaabbiamo rivisto Stefania uscire dal portone con la faccia di quando le cose non girano per il verso giusto. Era rimasta bloccata nell’ascensore e dopo aver gridato e suonato alla fine s’era liberata da sola, la mia è una donna di prodigi e avventure, con un coltello a serramanico che ha in borsa, forzando le porte dell’ascensore. Abbiamo riso di quell’impaccio e ora mi viene il dubbio che Nuccia non volesse lasciarci andare via quell’ultima volta. Certo, certo, è un pensiero stupido. Come la neve che sembra latte.

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